01-05-2012: Diario di Amy - crociera sul fiume


01-05-2012: Diario di Amy

andata/ritorno

 

Rundu, un sacco di colori. Da qui in poi usano vestiti dai colori ancora più sgargianti; quando li si vede stesi ad asciugare, magari fra due capanne, paiono arcobaleni sghembi e psicadelici, pieni di una festosità tutta loro. Rundu un sacco di gente per strada che va che viene. Ricerca inutile di una tazza di caffè senza allontanarsi troppo dal distributore. I bianchi si contano sulle dita di una mano; mi mette un po’ paura – ma anche mi affascina. Fascino che aumenta quando poi ci addentriamo nelle viuzze sterrate delle baracche variopinte. A Kehemo Ketuko visitiamo la scuola per bambini bisognosi che anche la Goldwing cerca di aiutare, insieme a molte altre lodevoli persone e donatori; in particolare secondo me un plauso e ringraziamento speciale va a Stefano, un ragazzo volontario che sta sempre lì alla missione e pure ci dorme, e si è dimenticato di tutta la vita sfrenata e piena di cose che facciamo noi per stare lì ad aiutare bambini affamati e donne malate di AIDS. C’erano tanti piccoli scolari divisi in tre aule, con gli occhi grandi grandi e un aspetto sano, ogni aula con l’insegnante, la lavagna, i cartelloni colorati ai muri, i banchi in ordine con le seggioline su misura; abbiamo distribuito biscotti, erano contenti.

Rundu anche tornando.

Durante la notte sudo una specie di acquazzone, non so perché, ma la mattina mi sveglio fradicia con la canottiera da strizzare e il letto bagnato di sopra e di sotto neanche avessi pisciato 5 litri di pipì. A colazione m’illumino d’immenso: ci sono le pankeaks, proprio precise a come le faceva papà, quelle rare volte che ci si metteva… le ho sempre adorate, queste fritteline piatte, che noi da piccoli per mancanza di sciroppo d’acero imbevevamo di miele dopo averle imburrate per bene.

Un giorno, stiamo andando da qualche parte in auto, siamo a Windhoek, dallo stereo esce la canzone degli America che piace molto a entrambe…I went through the desert on a horse with no name, we felt good to be out of the rain… e mamma inizia a raccontarmi. Quando nacqui, papà venne a trovarci all’ospedale, venne a trovare lei più che me. Si presentò con tre rose rosse, questo disco degli America (A horse with no name, la mia canzone “natale”) e strafatto. L’amore, la vita e la morte assieme, concentrati, dolorosi, dionisiaci forse: l’amore, le tre rose rosse, la vita, io appena nata e la musica, la morte, la droga nelle sue vene… Papà morì quando avevo quindici anni – lacrime e pankeaks.

Dopo Rundu ci fermiamo a Mururani, un altro centro di beneficenza. Solo che qui non c’è un volontario che ci sta fisso (forse farebbe anche fatica), non c’è una chiesa, non ci sono aule ordinate… qui è per dormire e soprattutto mangiare; sono orfani, sono affamati fino a rosicchiare cuoio e legno, sono disperati, e sono sempre di più, sempre di più, i soldi e il cibo non bastano, non bastano mai. Dentro una casupola spoglia una donna con fatica rimesta polenta bianca in un grande calderone nero sopra il fuoco; di fianco un altro fuoco, un calderone un po’ più piccolo, un pesce che sguazza nel brodo; la donna spiega che bisognerà tagliarlo in fettine minuscole affinché ne venga un po’ per tutti. I bambini sono a scuola, lì ce ne sono solo due tre. C’è una ragazza dai lineamenti san, Julia, che sta male, c’è un dolore profondo e costante nella sua espressione, il volto reclinato, la mancanza d’un accenno di sorriso… Mi ci sono intristita, m’è venuta quasi voglia di vendere tutto, racimolare quanti più soldi possibili e farne qualcosa di utile lì, ma soprattutto stabilirmi lì a costo di vivere nella merda e di nulla come loro, e cercare di aiutare, condividere, capire... Poi mi sono portata dietro la tristezza e il senso di sconforto, la tristezza profonda che c’era negli occhi di Julia.  

Una crociera sul Kavango. L’acqua di un azzurro intenso costituisce un’ampia distesa che si allunga e va e chissà da dove viene, cosa ha visto passando, quali riflessi porterà fin dentro al Kalahari. Le angolane sull’altra sponda – l’altra sponda che è l’Angola – si lavano con indosso solo le mutande colorate e ci salutano quando passiamo ad una certa distanza. Vediamo uccellini dal piumaggio di tinte meravigliose. Il tramonto soprattutto è strabiliante, indescrivibile. Certo me la sarei goduta di più, senza la visuale così spesso molestata dai maniaci delle foto – che a volte mi chiedo “ma le cose, le situazioni, gli accadimenti, gli incontri li vivete un po’? Ve ne avanza per gustare quel che sta succedendo, con tutte ‘ste foto?” Invece di viverlo, lo fissate con l’obbiettivo, rinunciate alla sostanza per elaborare un souvenir bidimensionale e piatto… Certe persone non mi riusciva di fotografarle; anche alcuni bambini, avevano l’aria – nei loro occhi seri e scuri – di chiedere “ma cosa sono per te? Un fenomeno da baraccone?”… Non ho voluto fotografare Julia, la ragazzina san, non ho potuto… a volte, mi sembra, è meglio di no, meglio lasciare le velleità da raccoglitrice di immagini nella borsetta e vivere l’essere umano che ho di fronte nella dimensione umana tridimensionale e presente – e vera… certo una cosa non esclude l’altra, eppure il dolore di quegli occhi era troppo vero per una banale bella foto in più nel pc, un dolore così lo si può portare e capire solo nel cuore, io credo.