I boscimani del Kalahari

Il cuore del cacciatore di van der Post


"Dobbiamo proprio aver commesso delitti che ci hanno reso maledetti, se abbiamo potuto perdere tutta la poesia dell'universo"

Simone Weil, L'ombra e la grazia

 

C'era un tempo in cui l'uomo viveva in armonia con la natura, gli animali, le piante, la terra, il cielo, il sole, le stelle, l'arcobaleno, l'intero universo. In armonia con tutto e con qualsiasi essere vivente. In pace e animato da propositi di pace. Cacciava solo per nutrirsi - mai per divertimento. Non raccoglieva né accumulava beni materiali, non conosceva la proprietà privata, la stupidità dei numeri, il dio denaro. Aveva il dono di provare meraviglia, come un eterno bambino. Era un sensitivo. Amava la musica. E teneva in gran conto le storie, l'arte del narrare, storie preziose intrise di magia e di istinto. Disegnava e incideva le pietre con quei racconti, giraffe, orici e springbock per sempre in corsa, sorpresi, fissati, nei megaliti dell'anfiteatro di Twyfelfontein (per esempio).

Dicono che veniamo da lì, da quell'uomo capace di essere bambino e principe, in armonia con tutto. Il boscimano. Dicono che la Namibia è una delle terre emerse più vetuste, il Namib Desert è disegnato dalle dune più antiche del pianeta. Anche se invero Il cuore del cacciatore è ambientato nel vicino Kalahari, immenso deserto dell'Africa australe che occupa non poca superficie del Botswana. Del resto Laurens van der Post era un boero sudafricano, i suoi scritti parlano ancora di territori annessi al protettorato del Sudafrica, il Botswana viene chiamato Bechuanaland e la Namibia è lontana dall'indipendenza - in genere si ignora, ma ai tempi in Namibia c'era l'apartheid tanto quanto in Sudafrica.

I primi uomini, piccoli, magri, ben fatti, con occhi vagamente mongolici, da deserto dei Gobi, la pelle marrone chiaro, quasi gialla a detta di van der Post, vivevano in piccole comunità, di norma non più di trenta individui, ed erano nomadi-raccoglitori. I primi, come non scrive l'autore, non cacciavano nemmeno, ma raccoglievano ciò che la natura offriva, spostandosi per approvvigionarsi di cibo e acqua. Con una conoscenza estesa e sublime delle proprietà di piante, radici, tuberi, semi e quant'altro - e a noi, soprafatti dalla scienza e da mezzi di fruizione sempre più alienanti, sembra incredibile e stiamo a chiederci come, come facevano a sapere che il verme del Mopane è non solo commestibile ma anche molto nutriente, che se con le foglie secche di tale cespuglio ti fai un decotto, ti passa il mal di testa, che la tale pianta è buona da fumare, che il latte secreto dall'euforbia damarana è un veleno letale?! E anche quando venne la caccia, per nutrirsi, imparando l'arte del bilgton - carne secca, molto usata in passato, sopratutto da viaggiatori, nomadi, eserciti, per la non deperibilità anche in climi molto caldi e aridi; il bilgton è tutt'ora una specialità molto diffusa in Namibia, Sudafrica e Botswana - anche quando impararono a cogliere lo springbock di sorpresa per cibarsene, non abusarono mai delle loro armi e del loro potere. Nei perenni spostamenti il bagaglio che ognuno portava con sé era estremamente esiguo e leggero, ridotto all'essenziale per una minuscola tenda (quand'anche), un minuscolo fuoco, un pasto frugale, una zucca piena d'acqua, l'arco e la faretra con le frecce avvelenate. La faretra ricavata dai rami cavi della Quiver Tree, la pianta caratteristica tanto diffusa anche nel sud della Namibia. Per lo più in un ambiente estremo come il deserto, la savana, le infinite distese di bush, con belve, carnivori, serpenti, tempeste di sabbia, furie degli elementi - in effetti in una situazione che per noi sarebbe di grande vulnerabilità e scomodità. "L'uomo moderno... sempre meno è capace di dedicarsi anima e corpo all'esperienza creativa che pure cerca continuamente di spingerlo a riempire la sua piccola vita di un vero e più grande significato. Tutte le conoscenze che ha accumulato lo tagliano fuori dal cuore della sua stessa esperienza di vita, e lo lasciano a muoversi fra rassicuranti macerie di beni materiali... Quanto è diverso dal nudo boscimano, che poteva portare in una mano tutto ciò che possedeva. Qualsiasi cosa mancasse nella sua vita, non ho mai pensato che fosse il significato. Per lui il significato moriva solo quando arrivavamo noi a piegarlo alle brillanti richieste del nostro ventesimo secolo". Si sa che nel deserto del Kalahari comunque vi furono "spinti", prima dalle popolazioni che scendevano dall'Africa centrale, poi da sud, da boeri e sudafricani.

Oggi dei boscimani resta davvero poco. Poche sparute comunità spurie di discendenti. Alcune visitabili. Oggi sono visitabili. Detta così sembra una provocazione, e un po' lo è - una provocazione a non dimenticare che in fondo siamo stati noi, a ridurli in tal modo... tutti, bianchi, neri, boeri, tutti, delittuosi e maledetti, sembrano aver sfogato istinti di prevaricazione e brutalità verso il più mite e pacifico - comodi e vigliacchi, e così siamo. A non dimenticare che c'è modo e modo di porsi con l'altro. Allora forse recriminare, provocare, non è il modo giusto - magari ricordare sì, ed essere umili. Che in fondo, come scrive lo stesso van der Post, gli incontri tra diverse culture "sono eventi di enorme portata, con conseguenze complesse e profonde" (l'autore parla qui di culture "primitive" e "civilizzate", dimostrando che, pur con tutta la sua buona volontà di sconfiggere certi pregiudizi, questi sono così duri a morire che egli stesso senza rendersene conto ne rimane vittima: è infatti solo dal nostro punto di vista spocchioso e autoreferenziale che giudichiamo altre culture "primitive" ritenendo noi stessi "civilizzati"; ad esempio è indubbio che in certi contesti queste etnie sono anzi più umane e civili di noi, là dove in altri aspetti la cosiddetta civiltà occidentale è più brutale e stupida di qualsiasi primitivo uomo delle caverne). Oggi i san, o i loro discendenti, già da tempo impossibilitati alla caccia dalle leggi governative, impediti nell'antica attività di nomadi-raccoglitori a causa delle proprietà private, delle recinzioni, degli erari ecc., o provano ad "emanciparsi" - ma in paesi dove le persone di colore lottano costantemente con la disoccupazione il boscimano è l'ultimo candidato possibile a qualsiasi impiego, ancora emarginato da tutti - fino ad arrivare all'accattonaggio e all'alcolismo. Oppure vivono in queste piccole comunità, un po' dei doni della natura, un po' del ricavato dai turisti, un po' grazie al volontariato e a lavori saltuari. Queste comunità sono aperte ai visitatori, qualcuno del gruppo di san che vi vive intratterrà i visitatori mostrandogli alcuni loro usi e costumi, come vivevano un tempo, a volte scoppiando alla fine in canti e balli, musica piena di calore che trascina, in genere anche gli occidentali più abbottonati. Mostrano come davvero vivevano un tempo, non c'è nulla di inventato, non è un teatrino di marionette o l'esibizione di pagliacci. Scrive van der Post a proposito di Dabé, un boscimano al loro seguito: "Il fatto stesso che non eravamo lì per dargli ordini o per insegnargli qualcosa, bensì per fargli domande e imparare da lui... vedere che ci impegnavamo a conoscere gli usi della sua gente, l'interesse con cui ascoltavamo le loro storie, il nostro evidente apprezzamento per le loro danze... avevano restituito ai suoi occhi, almeno in parte, l'onore dovuto alla sua razza... gli abbiamo fatto percepire ciò di cui noi tutti abbiamo bisogno: sentirci importanti". Dabé era un "boscimano domestico", così venivano chiamati i san sradicati dalla loro comunità e portati in qualche farm (fattoria) come braccianti e factotum; questi boscimani venivano talmente sradicati e alienati che, anche se riuscivano a tornare occasionalmente tra la loro gente, non riuscivano più a viverci; innumerevoli bambini sono stati rapiti (letteralmente) per essere trasformati in poco più che schiavi, in fattorie e abitazioni di bianchi, boeri e neri. Oggi d'altronde la situazione è diversa rispetto a quella narrata e vissuta dall'autore. Oggi anche i boscimani, che lo vogliano o no, sono costretti a sbarcare i lunario, hanno le loro spese, sono stati costretti al mercimonio depravante del denaro. Se i turisti pagano bene, sono contenti: il loro ideale più grande è mandare almeno uno dei figli a studiare. Ma questo viene alla fine della visita. Prima, durante... pensateci: avranno anche loro giornate migliori e giornate peggiori, visitatori più piacevoli e altri più ostici, alcuni sinceramente interessati, altri fanatici del selfy...

In fondo non siamo nemmeno qui per dire se sia giusto o sbagliato, per giudicare e condannare (e sarebbe stato forse giusto chiudere questi popoli in campane di vetro in modo da "salvarli" dai nostri germi contaminanti? Sarebbe stato fattibile? In fondo tutto cambia nel nostro mondo, di continuo). Possiamo però danzare la musica che la vita di volta in volta ci suona, ogni momento ha il suo swing, ogni incontro ha la sua melodia, ogni viaggio ha la sua colonna sonora. Allora questo testo di van der Post, tra le altre cose, suggerisce un modo, un atteggiamento verso gli ultimi rappresentanti di questa etnia - ma in fondo verso chiunque - che ha il pregio di mettere in primo piano l'individuo. Da un punto di vista antropologico, questo atteggiamento è uno dei più proficui per la cosiddetta attività sul campo, anche se non facile da raggiungere; impone, nell'incontro con l'altro, di mettere tra parentesi, momentaneamente, tutti i nostri preconcetti, pregiudizi, nozioni e acquisizioni, nudi come il boscimane è nudo, ma con ancora gli istinti, i sentimenti, l'umanità, la meraviglia.

"Il boscimano apparteneva al luogo in cui si trovava, ovunque fosse, e provava affinità verso chiunque e qualsiasi cosa incontrasse lungo il suo percorso" Ecco, essere così, sarebbe il massimo della vita. Ritrovare la capacità e il valore di quella "partecipazione mistica" di cui l'autore parla poco oltre. Noi, che viviamo in un "mondo che pare aver perduto il senso dell'importanza di ciò che è piccolo nella vita. Ossessionati dalla dimensione e dal numero, siamo stati privati del senso dell'immensa importanza dei piccoli, incerti movimenti nel cuore e nell'immaginazione delle persone".

Laurens van der Post riesce a raccontare una storia toccante e non priva di compassione. Allo stesso tempo ci arricchisce con stralci di ricchezza di un popolo unico e grandioso, che sapeva danzare e cantare, fecondo di storie dal vago sapore esopeo, dove gli animali sono protagonisti dalle indistinte caratteristiche umanoidi-faunistiche; un universo dove la meraviglia, la capacità d'osservazione, la mistica soggezione per gli spettacoli naturali, ancorché di "piccole" dimensioni, si coglie già nella preponderanza della figura della mantide - e quale insetto è più strabiliante e fenomenale della bellissima mantide, che ha occhi simili al boscimano, come annota l'autore? C'è poi spazio per tanti altri, l'istrice e la dassie, la mangusta e il tasso e il leone... persino l'arcobaleno, il sole, il fulmine, e ovviamente le stelle, le migliori cacciatrici, con un suono tutto loro, che van der Post afferma di aver sentito - provate anche voi, tipo alle Tirasberge, in una notte senza luna, a guardare in su: vi sembrerà di essere dentro la Via Lattea, la vedrete così vicina che probabilmente anche voi la sentirete cantare, sentirete la musica delle stelle.


Il testo a cui mi riferisco è Il cuore del cacciatore, Laurens van der Post, Adelphi, 2019, Milano

 

Maggio-Giugno 2019